Forse tra i racconti leggeri di una mezza estate in Liguria non sono contemplati quelli riguardanti le necropoli della Genova pre-romana.
Questi diventano leggeri quando a raccontarli è un’amica con la laurea in beni culturali che conosce molto bene una tua passione ed attraverso questa passione ti porta a spasso nel tempo.
Il racconto di Corinna parte dal centro di Genova, da via XX Settembre, dove nel secolo scorso, durante degli scavi sono state trovate 121 tombe etrusche ad incinerazione riconducibili al 500 a.C., ritrovamento che ha permesso di implementare le conoscenze sulla città.
Le tombe erano situate al di fuori delle mura che fortificavano il sito di altura. Si trattava di contenitori con coperchio. Ogni tomba ospitava uno o più defunti, legati da rapporti famigliari ed ogni tomba conteneva un corredo. I corredi ritrovati hanno una grande importanza nello svelare il ruolo commerciale del porto di Genova già all’epoca.
Le spiagge della città erano palcoscenico di un vero e proprio mercato. Su queste spiagge arrivavano i prodotti delle varie tribù liguri. Le tribù dell’entroterra portavano prodotti di allevamento, silvicoltura, di artigianato ed armi (i genovesi erano abili artigiani del metallo), le tribù costiere invece pesce e focaccia.
Questi articoli venivano barattati con altri, preziosi e particolari, provenienti da terre più lontane come l’olio dall’Asia Minore ed il vino da Africa, Etruria e Francia.
Una merce preziosa e non solo: il vino e le tombe etrusche
Il vino arrivava trasportato in anfore ricoperte di resina per una migliore conservazione ed impilate ad incastro nelle stive delle navi. Il vino ligure all’epoca, escluso quello di Coronata, non era rinomato. A dominare questo emporio erano gli etruschi.
Dai corredi traspare un certo livello di benessere, alcune differenze di abbigliamento hanno permesso di risalire al luogo di origine del defunto ed indicano in Genova una città già all’epoca cosmopolita. Fanno parte del corredo ciotole per offerte di cibo, giunchi, mestoli, anfore per olio, contenitori per profumi. Aghi, pettini, specchi, gioielli per le donne ed armi per gli uomini.
Il rito funebre, rimasto invariato per del tempo, ruotava intorno al cineario, recipiente utilizzato nella mescita del vino, una sorta di cratere. È il cineario che veniva impiegato come urna funeraria. Dopo aver introdotto le ceneri del defunto, veniva chiuso da un coperchio in legno con tre fori disposti a triangolo (legno ritrovato intatto laddove durante la sepoltura si è formato il sottovuoto). Attraverso questi fori veniva introdotto il vino nelle tombe etrusche.
La scoperta di questi contenitori, unita al ritrovamento di oggetti di valore tra cui ceramiche attiche raffiguranti Dioniso e i baccanti, legano la città di Genova all’ideologia del banchetto, della libagione.
Il vino a cui veniva attribuita una grande importanza, non solo veniva mescolato alle ceneri come lasciapassare per l’aldilà, come augurio di buona fortuna e come simbolo di salvezza, ma diventava anche il protagonista del banchetto, l’offerta liquida alla divinità.
Una parte di vino unita a tre parti di acqua veniva servita in un’unica coppa, il kylix, che passava di bocca in bocca per unire tutti alla festa.
Fonte: Genova preromana, Giunta Filippo. Un ringraziamento speciale a Corinna Giussani.