Giampietro Comolli, il mondo del vino visto da vicino: consigli per tutti.
Lei ha speso la sua vita nel mondo del vino, in particolare nel mondo effervescente degli spumanti, ha mai pensato di cambiare strada?
Adesso. Ora sono molto deluso dalle persone che si muovono nel mondo del vino italiano. Non lungimiranti, non capaci di vedere che il vino è ciclico, periodico, con dinamicità di consumo diverse da altri prodotti. Il mercato del vino non è assolutamente lineare e non è assolutamente verticale o orizzontale, non cresce sempre e non rimane mai fermo. Può anche decrescere.
Quando è arrivata la globalizzazione, non c’era più il vino italiano per gli italiani, ma un vino italiano per il mondo. L’Italia ci ha messo venti anni a capirlo ed ora si scontra con una redditività più bassa, una capacità di penetrazione del mercato più difficile, una difficoltà nel creare volumi per soddisfare le esigenze.
La Francia ci ha pensato prima e ci ha superati creando un “sistema modello” in cui prima di tutto viene la Francia come nazione, poi tutto il resto. Questa è la chiave di lettura che ha permesso alla Francia, negli ultimi vent’anni, di riuscire, con lo Champagne a penetrare centonovanta paesi. Il Prosecco, che dovrebbe essere il nostro vertice, è in centotrentadue paesi. Ne mancano sessanta per arrivare al livello di diffusione dello Champagne.
Al di là dei numeri, ci sono delle condizioni oggi che l’Italia deve affrontare e non si può rimandare.
Spesso si tende a privilegiare la sopravvivenza della struttura associativa, la sopravvivenza della carica, la sopravvivenza del sistema interno che sono tre danni paurosi e molto forti, piuttosto che un’attenzione al mercato e ad un investimento in uomini di marketing, in un investimento professionale molto alto.
Ha incontrato ostacoli nel suo percorso e come li ha superati?
Ho incontrato ostacoli non economici, non di riconoscimento, ma ho trovato ostacoli nelle teste delle persone.
Parlano del mondo del vino come di un mondo difficile.
Non lo è.
Se lo si conosce, se lo si studia, se si fa bene in tutta la filiera, il mondo del vino si mostra per quello che è, un sistema lineare, un sistema perfetto, un sistema che sta in piedi con un ritmo ed una regolarità meravigliose. Un’impresa di altissima qualità e tecnologia meccatronica.
Il problema è dato da tutte le strutture che ruotano attorno al vino.
Il vino italiano ha dovuto confrontarsi con lo scandalo dell’etanolo. Uno dei miei primi lavori al ministero è stata le legge 164.
L’errore di quella legge fu quello di pensare troppo alle sanzioni e di non darle una funzione di identità promozionale, d’identità di un certo tipo. L’errore concreto di questa legge fu di non vedere un pò più lontano. Non furono scelti strumenti alternativi o complementari alla non obbligatorietà o obbligatorietà dei Consorzi e non sapendo esattamente chiudere i Consorzi nell’ambito della tutela, oppure farli diventare dei Consorzi di tutela e promozione ufficialmente.
C’è questo ibrido. Al momento poteva sembrare una soluzione provvisoria, è rimasta poi definitiva.
La Francia non ha fatto così.
Una strada del vino?
Ho seguito la prima legge italiana sulla strada del vino.
A mio avviso, le strade del vino dovevano essere l’unico strumento operativo, concreto per mettere insieme le filiere collegate al vino e collegate al cibo. Perché in fondo la filiera del vino e quella del cibo sono collegate. Sono state create le strade del vino e dei sapori.
Ci sono 180 strade del vino e dei sapori, ma funzionanti ed efficienti 12.
La Francia ha quarantacinque strade del vino e non dei sapori di cui trentasei efficaci ed efficienti.
La misura media sia chilometrica, sia di bilancio, sia di efficienza delle dodici, quindici strade italiane migliori rispetto alle trentaquattro, trentacinque francesi migliori è di uno a sei.
Il fatturato, l’attività, il ricordo, la funzione, lo sviluppo, l’efficienza, il richiamo di una strada francese è su un chilometraggio di 100-120 km, in quel modo tu invogli a fare meno presenza del turista e più arrivo. Dove l’arrivo prevede il pernottamento. La differenza sta tutta lì.
Nel turismo l’obiettivo sono le trentasei ore, perché prevedono il pernottamento. Nelle trentasei ore una notte c’è. Si consente il lavoro ad una serie di attività collaterali e connesse, hotel e ristoranti ad esempio. Questo crea una tassa di soggiorno reale che poi viene reinvestita.
Spesso si parla di intuizioni nel mondo del vino, di tradizione e innovazione. Cosa mi dice di queste tre parole?
Sono cose molto diverse.
Il Sassaia è stato una grande intuizione. Di un enologo come Tachis non ce ne sono stati molti altri. Il motivo è semplice, sapeva fare il suo mestiere, non urlava, aveva un occhio al mercato ma senza passare dalle guide. La sua intuizione è stata qualcosa di formidabile.
Innovazione, tecnologia. Senza la tecnologia non si potrebbe fare il Prosecco ad esempio. Se oggi troviamo diversi calici di Prosecco molto validi è grazie alla tecnologia che li ha resi meritevoli, degni di poter essere paragonati ad altri grandi vini e di essere sulle buone tavole del mondo.
Tradizione, se identifica molto chiaramente il binomio terreno-vitigno allora è un pilastro, un caposaldo. Non mi piace il termine tradizione laddove è solo un voler mantenere un alone vecchio e un pò di metodologia superata o un volersi ancorare ad un termine che fa storytelling.
Tradizione significa cercare di riportare una vecchia realtà produttiva ai giorni nostri, senza dimenticare l’innovazione e la tecnologia se sono dei binari, anche singoli, che permettono di migliorare la qualità del prodotto.
La tradizione, intesa come rispetto del lavoro dei nostri vecchi, rispetto del terreno, non abusi, non incrementi di sostanze chimiche, la tradizione come sostenibilità dovrebbe essere alla base in qualunque impresa.
Come devono essere presenti l’innovazione e la tecnologia.
Oggi non mi scandalizza bere un vino rosso con il fondo. Sapendolo so come trattarlo. Non va visto come un prodotto di basso livello ed il suo produttore non è un incapace. Si tratta semplicemente di una tipologia di prodotto.
Nella tradizione c’è oggi da tenere molto conto anche di situazioni in cui sono i vitigni. Ancora oggi il 95% della viticoltura mondiale dipende dalla Vitis vinifera, un 5% è di ibrido. Attenzione, l’ibrido non dà quelle garanzie che sembra dia e soprattutto come si sposa l’ibrido della vite con le denominazioni di origine controllate e garantite? Come si sposa tutto il sistema legato alla DOC e DOCG e IGP con l’ibrido indiano o con l’ibrido asiatico? Come si sposa con il concetto di tradizione legato al binomio terra-vitigno?
Credo si debba parlare chiaramente di questo tema. Nelle scuole, nelle università, nei corsi di formazione non se ne parla, sembra un tabù.
Credo si debba partire da questo.
Io ho un’idea in testa. Se la Vitis Vinifera fosse patrimonio dell’umanità? Questo garantirebbe in tutto il mondo che solo le denominazioni di origine possano avere le Vitis Vinifera come punto di partenza. Tutto il resto da un vino da tavola buonissimo, ma rimane sempre vino da tavola. Si deve avere e fare chiarezza.
La chiarezza mi ha sempre contraddistinto, non posso andare contro un principio fondamentale e totale della mia vita, a costo di sembrare arrogante. Io ho avuto la fortuna di lavorare per bisogno, anche, ma più di tutto per passione.
C’è molto da fare oggi nel mondo del vino.
C’è un augurio che si sente di fare proprio al mondo del vino?
Che si cambi questo sistema attuale che trovo improduttivo. Troppe strutture ruotano intorno al mondo del vino. Credo, anche, non possa esistere una DOCG di pochi ettari con sole quattromila bottiglie prodotte. O è una DOC al di fuori di qualunque sistema e diventa una sorta di discorso di famiglia, chiamiamolo così e quindi non rientra neanche più in una strategia di mercato o in una strategia di prodotto di filiera, sennò l’Italia rimane bloccata.
Su questo la Francia, negli ultimi due anni, ha dato un esempio. Dopo una crisi subita nei precedenti tre anni sta rialzando la testa. E lo sta facendo molto bene. Tenendo alta la qualità dei prodotti ed investendo nel marketing nazionale e regionale cifre altissime, allo stesso tempo è ritornata a presentarsi nel mondo con “vino francese”.
Questo è molto importante.
Nel 1980, se non ricordo male, ci fu la prima manifestazione a Tokyo del vino europeo. La Francia si presentò con i suoi produttori più importanti in rappresentanza delle regioni di Bordeaux, Champagne e Borgogna, ma con il termine “vino francese”, l’Italia si presentò con due produttori, in rappresentanza ognuno di sé stesso.
Io credo che quello adottato fosse un modo per insegnare ai visitatori della manifestazione che per bere bene, dovevi comprare francese.
Che consiglio da ai suoi alunni?
Al corso di enoturismo e di strade del vino il consiglio che do è molto semplice: cercare di semplificare il più possibile la propria vita e la vita dei clienti, cercare di fare in modo che il valore aggiunto del pacchetto turistico sia maggiore del valore stesso del prodotto naturale, che ci sia una forte chiarezza nella comunicazione, che non si facciano degli errori di autoreferenzialità.
Al corso di economia del vino faccio un discorso un pò più complesso: in Italia è impossibile e sarebbe anche forse controproducente cercare di fare delle leggi nel mondo del vino che stravolgano le dimensioni di valore delle imprese. Mi spiego meglio, sarebbe difficile fare delle norme fiscali per agevolare l’acquisizione di un impresa in modo che rimangano poche imprese grandi come in Germania, dove quattro aziende hanno in mano cinquecento milioni di bottiglie, o come negli Stati Uniti, dove ci sono dei colossi.
L’Italia difficilmente potrà competere con queste imprese con gli stessi identici strumenti finanziari ed imprenditoriali, perché abbiamo piccolissimi produttori. Quindi la strada giusta è l’aggregazione di territorio, di prodotto, di mercato. Lasciare quindi la possibilità al piccolo di continuare a produrre anche poche bottiglie, ma quando si presenta nelle manifestazioni, può presentarsi come Regione o Nazione.
A quel punto sarà il consumatore che avrà la possibilità di poter capire.
Non si può più vivere di continue nuove denominazioni di origine, diventa estremamente dispersivo e quindi bisogna creare dei Consorzi separati di: tutela del territorio, di promozione che possono anche essere più grandi del territorio a cui fa riferimento il Consorzio tutela, quindi ci può benissimo essere un Consorzio promozione del vino di Verona, anche se poi all’interno c’è Soave, Amarone, ect. Questo risulta essere molto impattante.
Non si può lasciare che la burocrazia amministrativa e i costi di certificazione, di tracciabilità siano così elevati come lo sono oggi, perché mantengono strutture, non è più procrastinabile per l’Italia una scelta di puntare su dei leader assoluti che rappresentino nel mondo globale il vino italiano al di là dei singoli territorio.
Tutto questo evidentemente ha bisogno di una costruzione legislativa che in questo momento non c’è. Secondo me la legge 164 non ha avuto la sua evoluzione con la legge del 2001 e del 2002, ha bisogno di una nuova, totale e completa revisione.
Due parole per descrivere Giampietro Comolli
Felice e fortunato.