Quando penso al territorio della Valpolicella, nella mia mente prende forma l’etichetta apparentemente semplice di Romano Dal Forno.
Etichetta che avvolge un’intuizione, un pensiero, una filosofia, un sogno diventato realtà.
Etichetta che abbraccia il desiderio di dare origine ad un vino in grado di sopravvivere a chi lo ha creato.
Quell’etichetta ha sempre attirato magneticamente la mia attenzione ed ho coltivato per diverso tempo il desiderio di incontrare chi l’ha ideata.
L’incontro, è stato emozionante.
Ho incontrato l’uomo determinato e caparbio, che non si è piegato alle convinzioni del mondo agricolo in cui è cresciuto ma le ha sfidate, riscattando un territorio.
E già lo sapevo perché spesso mi sono ritrovata a leggere la sua storia, una storia che ha tracciato sulle tele dei miei pensieri l’immagine di un uomo forte e coraggioso, che ha rischiato molto, tutto, assistito dalla fortuna.
Ma quell’incontro mi ha permesso di conoscere il pensiero evoluto e raffinato che l’ha portato a compiere delle scelte così estreme e di entrare in contatto con l’uomo schivo e sensibile che non avevo immaginato.
Il suo primo incontro con il vino
Il primo incontro con il vino l’ho avuto da giovanissimo. Si racconta che mio nonno fosse il vero appassionato di vino, pensa che è morto che io avevo 4 anni. È con lui che ho assaggiato i primi bocconi di pane intinti nel vino.
Essendo in una famiglia di agricoltori sono sempre cresciuto con il vino sul tavolo. Quel vino fatto in un modo un pò arcaico, però era delle nostre uve.
Io seguivo un pò il papà quando lo pigiava e conoscevo un pò la filiera del vino contadino.
La sensazione anche non sensoriale del primo assaggio
Difficile, avendolo assaporato in giovane età, davvero non ricordo. Non avevo la capacità di comprendere le qualità organolettiche.
La cosa che però mi ha segnato è stato quando ho assaggiato i vini di Quintarelli.
Avevo 22-23 anni e con lui ho conosciuto un vino che mi era totalmente sconosciuto fino a quel momento.
Mi sono reso conto di conoscere, fino a quel momento, un vino ordinario, da tutto pasto, coi suoi difetti, un vino del mondo agricolo, da Quintarelli ho conosciuto un vino che neanche immaginavo.
È stata in quell’occasione che ho cominciato a capire e a chiedermi se mai si potesse arrivare a tale qualità. Ero totalmente ignaro di una qualità di vino simile alla sua.
Torniamo agli anni 79-80-81 dove la qualità non era annoverata nel vocabolario della lingua italiana per quanto riguarda il vino. Si faceva quantità. Noi infatti consegnavano in cantina sociale, eri considerato come socio in base alla quantità di uva che consegnavi e non alla sua qualità.
Cos’è il vino per lei
Cos’è stato, direi, perché ora è molto diverso. Non posso dire che sia stata una passione innata.
Di me non si può dire che da piccolo si percepisse una passione per l’uva. Hai presente quando vedi un bambino che gioca con qualcosa e quella cosa diventerà poi la sua passione, la sua carriera? Ecco per me no. Non è stato proprio così.
Devo dire la verità, quando tornavo da scuola – e per me era già una fatica terribile andarci per 4 o 5 ore, non sono mai stato innamorato della scuola, purtroppo – nelle giornate uggiose di novembre intravedevo dall’entrata del vicolo che portava verso il cortile di casa un mastellone in legno. Significava che mio padre aveva organizzato il travaso del vino. Questo voleva dire che per tutto il pomeriggio con una pompa a mano dovevo svuotarlo, lavare la vasca e poi ripompare il vino dentro. Mi veniva il sangue al naso, giusto per farti capire che la mia passione non era quella.
Era il periodo in cui avevo tredici o quattordici anni ed assieme alla mancanza di dedizione al vino c’era anche un ripudio verso l’agricoltura.
Vedevo che i miei amici che non avevano la campagna potevano, dopo aver fatto i presunti compiti, andare in giro, io invece il pomeriggio lavoravo ed i compiti li facevo, se mai, la sera. Mangiavo in fretta ed andavo ad aiutare mio padre.
Detestavo tutto questo e, divenuto un pò più grandicello ed incominciato a conoscere il gentil sesso, non dicevo di essere un contadino perché le ragazze si negavano. E ancora una volta, il mondo agricolo, quanto lo detestavo. Per le ragazze io “stavo studiando medicina”. Non me la sapevo neanche sognare quella strada. Giocavo d’azzardo ma ognuno giocava un pò le sue carte.
Per dirti che l’agricoltura era qualcosa di avverso.
A trasmettermi però un pò questa “negatività” era mio padre stesso. Io ero l’unico figlio maschio ed ho due sorelle.
Mio padre era tanto angosciato dal mondo agricolo perché in quegli anni era di scarso reddito.
Mi aveva spinto un pò sulle tracce della Vecchia Torino. All’epoca le persone andavano in fabbrica e tenevano la campagna come passatempo. Mi ha invitato a fare un concorso per guidare il filobus in città. Si facevano 6 o 7 ore al mattino o al pomeriggio e rimaneva quella mezza giornata per le proprie passioni, nel mio caso da dedicare alla campagna, ai 7 ettari che mio padre aveva. Un modo per poter mantenere la famiglia che avrei creato.
Così ho fatto. Un cugino di mio padre mi permise di spostare il domicilio. Ho preso la patente e fatto il concorso. Al concorso, per 3 posti, arrivai ventisettesimo e tornai a casa deluso. Qualora anche uno dei primi 3 in graduatoria avesse mollato, ora che sarebbero arrivati a chiamare il ventisettesimo sarebbe stata lunga.
Tornando a casa, ero già sposato da pochi mesi, una domenica presi mia moglie e feci con lei un giro in campagna. Iniziai a pensare di produrre un pò di vino. Un pò alla leggera per rendere autonoma la nuova famiglia e non gravare sulle spalle di mio padre. Anche se ero titolare per metà o tre quarti della sua azienda.
Mio padre aveva avviato dal 1961 un’attività parallela per far combaciare il pranzo con la cena. Io che mi ero dedicato alla campagna non avevo soldi perché c’erano le tranche della Cooperativa ogni 3-4 mesi. Non me la sentivo di andare da mio padre, da uomo sposato a chiedere aiuto. Questo gesto distruggeva la mia personalità. Io ho deciso di sposarmi, con coscienza, anche se avevo 22 anni. Non c’era nessuna incombenza. Ci siamo messi così, io e mia moglie, a fare un pò di vino. Per 3-4 mesi, quando la campagna aveva meno bisogno di me, andavo a suonare i campanelli nella Bassa Veronese e a disturbare le famiglie, chiedendo se volessero un modico vino.
In questi 3-4 mesi raccoglievo qualcosa per l’autosufficienza di questa nuova famiglia. Grazie a queste bottiglie di vino che vendevo mi sono imbattuto nella fatidica bottiglia di Quintarelli. All’inizio questo nome non mi diceva nulla.
Andavo a prendere i tappi per le mie bottiglie dal sugheraio di Parona. Me ne servivano 1000. Lui contava i tappi a mano.
Un giorno mentre aspettavo che finisse di contare vidi su una credenza delle bottiglie, mi colpì una bottiglia in particolare. L’etichetta copriva tutta la virola ed era scritta in caratteri tondeggianti. Attratto da questa etichetta chiesi informazioni.
Credo poco nel destino ma credo anche che sia stata opera del destino quanto è poi successo.
Se lui mi avesse risposto senza pathos tutto sarebbe finito lì. Ma alla mia domanda, lui si è fermato, ha smesso di contare i tappi, ha cambiato il tono della voce. Ecco, io non ho mai visto nessuno in estasi, ma potrei dirti che lo fosse, sembrava avesse visto la Madonna. Mi ha raccontato del suo successo, dei suoi meriti.
Gli chiedo di presentarmelo ma mi risponde che sarebbe stato difficile, visto il carattere un pò schivo ed allo stesso tempo un pò scontroso. Tornando a casa, ho pensato e ripensato a chi potesse conoscerlo. Il mio pensiero è corso subito agli amici diplomati che si occupavano di perizie in caso di grandine.
Nessuno ne aveva mai sentito parlare e nessuno di loro era mai stato a lavorare nella zona di Negrar.
La fortuna però mi ha assistito. Un giorno un amico mi ha raccontato che un ragazzo di Illasi conosceva e frequentava una figlia di Quantarelli. Spunta il nome di Gaspari Celestino.
Io non lo conoscevo. Abbiamo 6 anni di differenza. Quando avevo 22-23 anni, lui ne aveva 16-17. O meglio quando ne avevo 18, lui 12, c’è un mondo in mezzo.
Un giorno, nella banca CASSA DI RISPARMIO DI Verona, Vicenza e Belluno, stavo facendo la mia operazione. Allo sportello di fianco, un ragazzetto versa un assegno sul conto di Gaspari Celestino. L’ho aspettato fuori e così sono stato da Quintarelli.
Credo sia stato un colpo di fulmine e credo di poter dire reciproco. Per me lo è stato di sicuro, ma direi anche per lui.
Era del 1927, i nati in quell’epoca vedevano le donne con un altro occhio. Lui ebbe 4 figlie femmine, credo pensasse non fossero all’altezza, come invece è stato, di portare avanti la sua attività.
Io ai suoi occhi ero un ragazzo desideroso di conoscere, se avessi avuto una siringa avrei prelevato tutto il suo sapere. In lui ho trovato quello che cercavo: la possibilità di trovare nel mondo agricolo la mia identità.
Non ho mai mollato l’idea di trovare qualcosa che in agricoltura mi identificasse. Non volevo essere un numero. Ecco noi per la cooperativa eravamo il socio 122 che prendeva le sue tranche 3- 4 volte l’anno. A me questo non piaceva. Non mi piaceva essere una nullità tra i conferitori della cantina sociale.
Credo di avergli dato soddisfazione, nell’ascoltarlo.
È stato detto che ho lavorato da lui, ma non è vero. Con lui ho avuto ottimi scambi e lunghe chiacchierate molto rivelatrici.
Ho iniziato, prima ad imitarlo e poi piano piano mi sono costruito il mio pensiero, come un bambino che muove i primi passi lasciando la gonna della mamma.
Ecco non posso dire che il vino è stata la mia passione. Io ho voluto fortemente lavorare nel mondo agricolo in un certo modo ed ho portato avanti il mio pensiero, senza tirarmi mai indietro.
Spesso sono stato accusato di essere stato assente nei confronti della famiglia, è vero, però se si vuole raggiungere un risultato ci si deve dedicare anima e corpo.
Per il risultato certo, ma anche perché nel frattempo erano stati fatti degli investimenti.
La banca elargisce con l’elastico, non potevo prendere alla leggera gli impegni.
Io avevo scommesso non tanto, ma tutto.
Mio padre fu avverso a questa iniziativa. I suoi coetanei che in paese avevano più o meno iniziato la mia attività erano finiti tutti male. Qual è quel genitore che non mette il figlio davanti all’evidenza?
Se io fossi stato il papà di Romano, non avrei permesso a Romano di intraprendere questa strada.
Il fatto di essere figlio unico mi ha aiutato. Come una strada a senso unico. Mio padre ha dovuto ingoiare la scelta. Non elargiva complimenti, i richiami sempre, i complimenti mai. Solo poco prima di morire mi ha dato soddisfazione nel riconoscere il mio coraggio.
Ho guardato il cielo sperando che non si squarciasse e che non uscissero i santi. Non me lo sarei mai aspettato da mio padre. Probabilmente ha visto la sua paura tramutarsi in qualcosa di inaspettato e sorprendete.
Anche per quanto mi riguarda, se mi avessero raccontato prima quello che avrei dovuto affrontare, forse avrei mollato. Ho scommesso davvero molto, le proprietà di mio padre non sarebbero bastate a pagare i debiti. La banca mi ha dato fiducia, forse ha visto la mia serietà e la mia determinazione. Non lo so ma è andata così.
Il vino è stato un mezzo per riscattare un’idea di agricoltura e per trovare un’identità in un mondo che le stava stretto.
Sì, bisogna aggiungere un’altra cosa. Come le dicevo prima, nei primissimi anni 80 e fino a gli anni 85-86 ho fatto questa gavetta in cui uscivo 3-4 mesi in primavera – era il periodo in cui la vigna era in fase di partenza, non c’era grande bisogno di lavoro e comunque c’erano sempre mia moglie, un pò la mia mamma ed un pò il mio papà – mi ricordo che pur contento perché avevo venduto quello che mi interessava vendere quella giornata, alla sera rientrando mi rimaneva la sensazione di uno scorrimento veloce del tempo. Il pensiero fisso di realizzare qualcosa.
Nell’agosto dell’80 nasce Luca e nel settembre ’81 nasce Michele.
Mio padre mi ha sempre detto che i figli non chiedono di venire al mondo, scegliamo noi di farli nascere ed è nostro dovere dar loro istruzione, educazione, un piatto caldo e qualche strumento per sopravvivere.
Avevo 7 ettari ed al momento due figli che sarebbero diventati due capifamiglia, nell’84 è arrivato anche il terzo. Sono cresciuto in campagna, 15 anni con mia nonna. Lei mi ha raccontato tutte le difficoltà del nonno per racimolare questi primi ettari di terreno.
Un pezzo di storia della mia famiglia di cui vado orgoglioso. Da questo pensiero la voglia di realizzare qualcosa per poter continuare a scriverla, questa storia.
È un sentimento molto importante per me.
Ho raccolto forze che non credevo di avere e con grandi sacrifici ho realizzato il mio sogno.
Ora come lo vede il vino?
Più passano gli anni e meno occasioni di feste si ha, lo vivo in modo più soft. Il vino lo vedo con grande rispetto, con la voglia di toccare un’emozione, un grande piacere.
Pasteggio ad acqua ed a fine pasto mi concedo un mezzo bicchiere di un vino che mi da un gran piacere, un’emozione, un brivido. Gocce che persistono nel loro sapore.
Mi racconti il territorio dei suoi vini
Ognuno di noi ha la certezza di possedere il fazzoletto migliore di tutta l’area. Io non ci credo.
Questa è un’area poco predisposta per i vini rossi dolci, l’altro mio terreno, acquistato nel 2017, invece è tutta un’altra storia.
Ci sono terreni più o meno vocati per determinati vini.
Poi entra in campo l’uomo, chi conduce la terra, come la conduce, che cosa vuole ottenere da un vino.
Spesso il sogno di produrre vino si infrange con le difficoltà, con la paura di affrontare il mercato. Abbiamo paura del valore del vino. In questa zona si produce un Amarone più leggero, perché più fruibile ed allora ci illudiamo di avere successo.
Perché si scende a compromessi?
È come fare un grande piatto, da chef stellato, poi farne uno simile con surrogati. Non ne capisco il senso. Si deve restituire nel bicchiere la massima espressione del vitigno e del terreno. Si deve saper interpretare il vitigno ed il terreno. In alcuni anni certi vini non si possono produrre, si deve rispettare tutto questo.
Per me è stato importante il fatto di condurre metà del vigneto con spirito hobbistico. Ho lavorato i primi anni come se non avessi bisogno di soldi. Questo mi ha permesso di perseguire la qualità. Quando il mio primo vino è stato pronto, non avevo l’incombenza della banca. Mi sono permesso di andare lentamente, pensando che l’hobby potesse diventare il mio futuro.
Nella mia famiglia i debiti non sono mai stati contratti. Il mio primo debito l’ho fatto nei primi anni ’90. Non c’era più spazio in cantina ed avevo bisogno di ampliarmi anche per proteggere il vino in un ambiente con temperature corrette. Ero ad un bivio. Ho venduto la casa di Capovilla e, quello che mancava per affrontare l’investimento, l’ho chiesto alla banca.
Stavo, per la prima volta, nella famiglia Dal Forno affrontando un debito, ma ormai dovevo rischiare, non potevo più tirarmi indietro. Abbiamo sudato freddo. La lira è stata svalutata. Una serie di peripezie. Ma ho avuto davvero tanta fortuna. Soprattutto perché i miei nervi non hanno ceduto. Ci sono andato molto vicino.
Sono stato assistito dalla fortuna.
Una parola del mondo del vino che le piace
Ho sempre vissuto dietro le quinte, non ho mai amato la figura del protagonista.
Mi ricordo una premiazione a Milano del Gambero Rosso. Ero con mio figlio Luca su una terrazza molto bella. I produttori sembravano tutti amici. Eppure io non ho mai avuto questa ambizione, di essere uno di loro.
La mia attività è cresciuta molto lentamente. Piuttosto che alle serate di premiazione mi sono dedicato al lavoro, a produrre un vino che potesse essere protagonista. Qui sono un pochino presuntuoso, ho lavorato per produrre un vino capace di farsi ricordare, che all’assaggio catturi l’attenzione e che faccia parlare di sé.
Io ce la metto tutta, ma tanto dipende anche, una volta uscito dalla mia cantina, dal trasporto, dal tappo, dalla conservazione.
Se i suoi vini fossero delle canzoni o delle opere d’arte?
Amo le melodie liriche non le opere perché non ho la cultura per comprenderle, però faccio fatica ad ascoltare le canzonette di oggi che sanno di poco.
Forse appartengo ai vecchi ma non mi dispiace per niente. Amo Claudio Villa o Luciano Tajoli, perché c’è della sostanza.
Non capisco la pittura astratta, preferisco la pittura classica, che può sembrare la copia di una foto, ma io in questo riconosco l’abilità dell’artista o la nobiltà dei materiali.
Forse è un mio limite.
Ma io il vino lo vorrei che desse un’emozione e che fosse autentico.