Il Saten Franciacorta è un prodotto che identifica un territorio, quello della Franciacorta appunto e, come spesso accade quando un prodotto o un marchio ha molto successo, tutti ne vogliono parlare da esperti, molti tentano di imitarlo, altri storpiano tutto pur di avere un piccolo spazio.
L’ultima che ho letto su un sito anche molto autorevole è la seguente: “Satèn” è la pronuncia francese di “satin”, che significa “raso”. La sua particolarità è che anche in inglese “satin” ha lo stesso significato e indica un tessuto fine, liscio e morbido”. Nulla di più errato e di modificato a titolo personale. Facciamo chiarezza su questo vino, simbolo della Franciacorta.
Uno dei tanti regolamenti dell’allora “comunità economica europea” emanati quando non era ancora Unione Europea (chissà quando vedremo finalmente la USE, come gli USA, in stati federati), è del giugno 1989 e obbligava a riservare, entro 5 anni, il termine “Crémant” ai soli vini spumanti elaborati in Francia e in Lussemburgo. È una menzione speciale in vigore da tempo e usata da tutti i produttori nel mondo come era anche la dicitura di “Methode Champenoise” o simili, sempre per vini ottenuti con la spumantizzazione nota oggi come “metodo tradizionale classico”.
Il metodo ancestrale della fermentazione in bottiglia, doppia tappatura, aggiunta di lievito e sciroppi già utilizzato dai romani soprattutto nella zona del Falerno e di Pompei oltre che dagli etruschi nell’aretino e nell’Emilia occidentale da non confondere con il “metodo italiano” utilizzato a fine XIX secolo grazie all’industrializzazione meccanica e alle scoperte tecniche di governo della pressione di grandi masse in fermentazione.
Da qui due metodi diversi, due vini opposti, seppur ottenuti con un sistema fermentativo basico chimico-fisico simile: la così detta spumantizzazione.
Ebbene, chi nel 1989-1990 stava producendo nel mondo vini spumanti metodo champanoise o tradizionale classico con la dizione “crémant” in etichetta o rinunciava alla tipologia particolare o doveva correre ai ripari.
Crémant è un termine di origine esclusivo francese indubbio anche per il modo in cui è scritto con tanto di “é” acuta accentata e non un “è” lunga, quindi con un’impronta linguistica precisa. Il termine, in uso da anni, sta a significare una particolare tipologia di “bollicina di vino” ottenuta solo da uve di colore bianco naturale (e non vinificate in bianco) e da una pressione endogena dentro la bottiglia meno evidente, meno spinta e quindi con un contenuto di zuccheri naturali o immessi con gli “sciroppi” al di sotto di una certa dose o percentuale o peso.
Se la scelta dell’uva “solo bianca” non è un problema se non legato alla qualità e caratteristiche produttive necessaria per partire con l’”optimum” della materia prima, è evidente che la caratteristica della pressione minore è frutto di una complessa serie di fattori da armonizzare, da mettere in delicato equilibrio che solo menti e mani enologiche esperte sanno governare ed ottenere con continuità, regolarità, saggia capacità e competenza, nella conoscenza dei vari elementi aggiuntivi e non che intervengono nell’elaborazione con il metodo tradizionale classico.
Arrivai in Franciacorta durante la vendemmia dell’anno 1992, appena finito il mio lavoro di consulente del ministro Giovanni Goria nella definizione di alcuni articoli della legge 164/92 che era la “dura e rigida” risposta immediata ai danni creati dai disastri enologici del 1986, il noto fenomeno metanolo. Legge che aveva la triplice funzione di creare barriera ai furbetti del vino in modo pesante e penale, mantenere alta la guardia sulla produzione e produttività nazionale puntando su incrementare la quota DO-IGT dei vini, guardare al futuro di medio periodo rimandando di qualche anno una revisione-innovazione nuovamente legislativa in cui la penalità giudiziaria fosse ridotta e sostituita da una tracciabilità certificativa di terzi.
E così avvenne poi fra il 2000 e il 2005 con alti e bassi, con errori e qualche ingerenza di troppo. Ingerenze che già erano avvenute con la legge 164/92 quando in una notte sparirono 3+3 articoli della legge per diretto intervento condiviso da Coldiretti Piemonte (e nazionale) e da industriali spumantisti piemontesi, veneti e emiliani.
Quando arrivai al Consorzio era presidente Paolo Rabotti, persona di altri tempi, squisito e di grande attenzione ed equilibrio che convinse tutto il consiglio che ero la persona giusta per la Franciacorta e il Franciacorta e sul tavolo mi trovai subito alcune “grane”: in primis la presenza di tre consorzi di tutela per la stessa denominazione e nessuno riconosciuto ufficialmente e con le corde giuste; la presenza ancora di 5-6 aziende che producevano entrambi i due metodi spumantistici e il disciplinare non aveva ancora fatto la scelta unitaria; una zonazione viticola dell’università di Milano appena avviata che poteva creare figli e figliastri; una forte diversità di obiettivo fa Coldiretti e Confagricoltura; un abisso fra il consorzio di tutela e tutti gli enti pubblici provinciali e regionali e…anche la questione Crémant.
Il caso volle, ma direi soprattutto l’intelligente lungimiranza imprenditoriale e produttiva di alcuni grandi personaggi produttori, che mi trovai nel cassetto uno studio della più importante agenzia di marketing e comunicazione milanese del tempo che indicava 4 “termini” da registrare innovativi e da usare per il Franciacorta nel caso servissero.
Era il tempo in cui c’era anche una grana legale con il Comitato Champagne di Reims perché un manifesto pubblicitario apparso a pagina intera su quotidiani nazionali in occasione delle feste natalizie di quell’anno riportavano al centro una tradizionale bottiglia di spumante tappata e per etichetta la forma della zona di produzione della Franciacorta, ma come cappello-slogan la frase che ha fatto saltare sulla scrivania i legali francesi, così declamante a caratteri cubitali: “se tu fossi in Francia, lo chiameresti Champagne”.
Apriti cielo: gli eretici italiani che si appropriano di un bene unico intellettuale collettivo e sulla tavola da secoli di re imperatori principe e regine. Questi bresciani, franciacortini, italiani: che vogliono! Immediatamente cercai di non cassare il simpatico messaggio, molto utile e forte, e lo trasformai in “se fosse francese, come lo chiameresti?” oppure “se tu fossi in Francia, come lo chiameresti?” e così chiudemmo la partita e lo slogan andò avanti insieme a quell’altro “Franciacorta e …basta!”. Più semplice e banale ma diretto e adattabile a tutte le questioni e risoluzioni in atto compreso arrivare a cassare dalle etichette di designazione di tutte le bottiglie di Franciacorta i termini “spumante, talento, Docg, metodo classico, metodo tradizionale” che pian piano si ottennero tutte come Consorzio entro i primi anni 2000, appena dopo il fantastico evento mondale “brindisi del terzo millennio” che vide insieme Franciacorta, Parmigiano Reggiano, Ferrari auto, Giorgietto Giugiaro.
Difficile fu come sostituire il temine “Crémant” con una parola italiana, vera, pura, nostra, unica, esclusiva che identificasse quella particolare tipologia di vino e di sapore su cui io stesso volevo puntare come fiore all’occhiello, come simbolo e icona reale diretta e quotidiana sulla tavola degli italiani e non solo.
Feci il primo viaggio in Champagne nel 1993 e ne seguirono altri, grazie all’amico Gianni Legnani al tempo responsabile del Comitato Vini Champagne in Italia. Fu l’anno in cui conobbi i vari Vranken, Bollinger, Selosse, Bara e i dirigenti del CIVC come Larson, de Villepin, Geoffroy e portai a casa, non so come, una copia originale dello “statut” de la Champagne, il mitico vecchio regolamento aggiornato nei decenni e decenni. Da li appresi anche tutte le sfumature di grigio, la capacità di dire e non dire certe cose, la competenza, fondamentale alla base di ogni scelta e di ogni dichiarazione, capii anche la storia del Crémant.
Dei 4 termini registrati che mi ritrovai nel cassetto, parcella pagata equamente da Bellavista, Berlucchi, Cà del Bosco, dopo ampia valutazione in due consigli di amministrazione, fu scelto “Saten” rispetto agli altri termini che vennero lasciati a disposizione delle tre aziende che hanno offerto la ricerca al Consorzio: una di quelle non scelta divenne poi un altro grande marchio per un’azienda.
Quindi il temine “Saten” venne acquisito per tutti i soci del Consorzio stesso CVF che intanto aveva deciso di puntare solo sul metodo tradizionale classico grazie alla rinuncia di alcune importanti aziende vitivinicole di marchi noti, sulla chiusura della zonazione con 7 unità di paesaggio che avrebbero contribuito a creare entità complesse aziendali di aggregazione di terreni diversi, sulla creazione di un unico consorzio della Franciacorta con 52 aziende totali (dalle 19 originarie) chiudendo l’altro consorzio di tutela e uscendo da quello provinciale bresciano, l’Ente Vini Bresciani e sulla strada della Docg rispetto alla sola Doc iniziando a registrare il marchio “Franciacorta” in tutti i paesi europei e non solo come marchio intellettuale e anche come brevetto industriale dove era possibile.
Ricordo il viaggio in Uruguay contro l’uso improprio del termine Franciacorta da parte della cantina del vice presidente del Parlamento senatore Irurty, la più grande del sud America che allora confezionava 60.000 ettolitri di vino. Quindi per ripetermi per l’ennesima volta fu registrata abbinata a Franciacorta anche la menzione speciale “saten” come qui scritto senza alcun accento corto e/o lungo ma inserendo nella relazione tecnica la possibilità di inserire gli accenti pur essendo un termine totalmente inventato, italiano, ma nel caso fosse o venisse da terzi storpiato rispetto la lingua italiana.
Oggi il Franciacorta Saten …e basta, è codificato nel disciplinare di produzione di tutti i vini come tipologia a se stante, autonoma, ottenuta solo con uve naturali bianche (Chardonnay, Pinot Bianco di base), con un sapore solo o al massimo brut quindi con un residuo zuccherino massimo di 6 gr litro in bottiglia e una pressione naturale endogena di rifermentazione massima di 4,5 atmosfere a 20 gradi centigradi di temperatura.
All’inizio ci fu una certa distanza da parte di molti produttori, cambiata poi e accettata nel momento in cui si è puntato, come Consorzio di tutela, sulla comunicazione del Franciacorta “a tutto pasto” per destagionalizzare i consumi. Nel 1992 la produzione annua di bottiglie certificate Doc Franciacorta di due metodi era di 1,13 milioni di bottiglie; nel 1995 i consumi erano già intorno a 2,5 milioni di bottiglie l’anno con circa 50.000 bottiglie di Saten; nel 2000 i consumi era arrivati a 4,1 milioni di bottiglie (l’azienda Berlucchi Guido spa che vendeva circa 3,9 milioni di bottiglie era fuori dal Consorzio e dalla Docg) con 390.000 bottiglie di Saten.
Quindi Crémant (francese) e Saten (franciacortino) sono due termini che identificano la stessa tipologia di vino caratterizzati da un’effervescenza di pressione minore rispetto alle tradizionali 5-6 atm ma con una spuma nel bicchiere più morbida, succosa, cremosa, setosa, pastosa (ecco i termini corretti) e quindi più piena e compatta, più bollicine piccole perché meno forzate.
Da qui l’importanza di un tavolo di amici enologi, allora, per stendete il regolamento-statut del Franciacorta Saten appena prima di presentare la corposa domanda di riconoscimento della Docg alla Regione e al Ministero delle Politiche Agricole passando sempre e ancora per un parere vincolante del Comitato Nazionale Vini a Roma di matrice molto piemontese, molto legato alla spumantizzazione dell’Asti e ad un metodo “italiano” meccanizzato e tecnologico di grandi masse.
Fu interessante discutere di massa, volumi, bottiglie, doppia tappatura, due sciroppi e fascette docg da appore prima o dopo l’imbottigliamento finale: certo tutti i membri del comitato erano degli esperti ma anche molto cavillosi, burocrati, legati a quello che avevano sempre fatto e visto. L’innovazione di prodotto, di tecnica e di controllo aveva creato qualche difficoltà poi fortunatamente risolte, ma durate quasi 1 anno che rimandò il riconoscimento. Soprattutto l’esistenza di una differenza tecnica della pressione fra il Franciacorta brut e il Franciacorta brut Saten aveva creato qualche problemino e incomprensione. Poi l’accordo Consorzio vini franciacorta e direttamente con la direzione generale dell’ufficio repressione frodi della Lombardia chiarì ogni questione e dubbio.
Intanto la produzione e il consumo di Crémant in Italia cresceva sull’onda della “destagionalizzazione”: sempre nell’anno 1992 il consumo di bollicine franciacortine all’anno in Italia si concentrava per l’88% nell’ultimo mese dell’anno; mentre nell’anno 2000 il consumo del mese di dicembre era “solo” del 65%. Si può dire che il legislatore comunitario e la corretta richiesta dei francesi fu un passaggio importante, anche utile per una scelta di campo autonoma e forte della Franciacorta che prese la sua strada: una strada che dal 2000 al 2020 non è cambiata in termini di principi, formula, messaggi, contenuti. C’è stata solo una grande crescita nei volumi prodotti e consumati con il marchio “Franciacorta docg” passati da 4 milioni di pezzi a 18 milioni, compreso anche tutta la produzione della Berlucchi Guido spa, non da poco conto.
Quindi il termine Saten originale è stato registrato senza accento, non ha nessun legame diretto con nessun termine francese o inglese, nessuna assonanza con termini di morbidezza e di tessuto liscio: l’unico eventuale minimo legame c’è con la parola seta ma è solo un semplice caso di quasi solo cacofonia con anche vocali casualmente invertite. Diciamo che in ogni caso come il francese cremant fa venire in mente la crema lo stesso saten fa venire in mente setoso. Nel 1995 Saten era in uso solo per i soci del Consorzio, mentre in base alle nuove leggi sull’erga omnes di tutti i consorzi italiani, il termine Saten è iscritto nel disciplinare di produzione e quindi in uso per tutti i produttori franciacortini, soci o non soci del consorzio, diventando una tipologia di sapore e tecnica a se stante.
Oggi i Franciacorta producibili, con differenze, sono: Franciacorta, Franciacorta Saten, Franciacorta Rosé, Franciacorta millesimato, Franciacorta riserva. Oggi molte etichette di produttori riportano la dizione “Franciacorta Satèn” accentato, addirittura con l’accento lungo e non acuto. Quindi il “saten” è anche designato come blanc de blancs consentito per tutti gli altri vini spumanti italiani, ottenuti solo da uve a bacca bianca, internazionali e/o autoctone storiche locali. Per la produzione del vino base è espressamente vietato l’utilizzo del Pinot Nero. Si potranno invece utilizzare uve Chardonnay e uve Pinot Bianco (per massimo 50%). La pressione massima in bottiglia al momento della stappatura finale deve essere inferiore alle 5 atmosfere mentre nelle altre tipologie è di circa 6-6,5 atmosfere. Per ottenere un simile risultato l’ultimo disciplinare in vigore (dal 2000 al 2020 modificato già alcune volte) limita il quantitativo di zuccheri entro il 20 g/l. Questo stesso quantitativo deve essere totalmente o parzialmente essere utilizzati durante la presa di spuma con la produzione di anidride carbonica e alcol etilico in modo da rientrare entro i limiti della tipologia “brut” (massimo 12 gr/litro) legata alla quantità di acidità residua finale.
Infatti per avere, correttamente e gustativamente alla fine della fermentazione in bottiglia, massimo 5 atm è fondamentale saper governare il dosaggio di zucchero in fase di tiraggio: la fermentazione di 4 g/l di zucchero in bottiglia produce un aumento di pressione di una atmosfera. Da ciò ne deriva che, se volessimo ottenere 6 atm a fine ciclo di lavorazione dovremmo dosare 24 g/l di zucchero (24/4 = 6). Nel Saten quindi l’aggiunta iniziale di zucchero in bottiglia sarà inferiore, intorno ai 18-20 g/l. Il risultato è uno spumante più elegante, fine e con una spuma più morbida e setosa. Le altre tipologie di Franciacorta invece possono essere prodotte in tutte le diverse varianti: dosaggio zero, extra brut, brut, extra dry, sec e demi-sec.
Grazie al dott. Giampietro Comolli, papà del Saten, per questo prezioso racconto.