Sempre più frequentemente mi ritrovo a riflettere sulla figura dell’enoturista targato .22: quanto è davvero interessato al prodotto vino?

Lo abbiamo detto, scritto e letto, un sacco di volte: negli anni passati chi arrivava in cantina lo faceva unicamente per acquistare vino, da consumare durante il soggiorno vacanziero o da portare a casa per fruirne nei mesi a venire.

Lo faceva magari perché quel vino lo aveva già bevuto, aveva già avuto modo di apprezzarlo, gli era piaciuto tanto da voler andare a visitare quella realtà produttiva, cosa che poi era, anche, il mezzo migliore per procurarsi quelle bottiglie tanto amate ad un prezzo competitivo rispetto a quello dell’enoteca sotto casa. 

Ci si recava in cantina per il prodotto. 

Oggi, invece, lo scopo del far tappa in cantina, per un numero sempre maggiore di quanti in cantina scelgono di fare tappa, non è l’acquisto di vino. Per molti è diventato altro. È diventato molto altro. 

Nel desiderio di visitare una cantina, il vino non c’entra quasi più nulla.  Lo scopo, oggi, dell’andar per cantine, per parecchi, non è il vino. La bottiglia, per molti, non è più la protagonista dell’esperienza. 

Il fine ultimo, per tanti, è LA VISITA. L’experience. In sé. Per tutti l’attore principale è indiscutibilmente il wine tour come svago e divertimento. Non il prodotto (liquido) ma il prodotto esperienziale. Non il prodotto (tattile) ma il compiacimento edonistico del vivere il bello.

Non necessariamente questo è un male…in fondo la platea di utenti che arriva nelle aziende si è moltiplicata in maniera esponenziale. 

Certo la platea, incrementatasi nel numero, è diventata più variegata, anche nel sentire…

E la vista, in quanto prodotto esperienziale da vivere per la gradevolezza del bello, per molti, nei molti diversi sentire, non ha più lo scopo – unico – di appagare una propria emotività nella intimità del personale, ma, al contrario, la si vuol vivere per far vedere agli altri che la si è vissuta.

Il wine tour è – oggi – in molti, (troppi?), casi una “esperienza prodotto” vissuta perché e purché sia condivisibile sui social, postabile su Instagram.

Sono sicura che a qualsiasi produttore o responsabile della winery hospitality il pensiero che il “prodotto primo” non è più il VINO, la BOTTIGLIA, fa accapponare la pelle!

Abbiamo, per anni, basato lo storytelling sulla certezza eburnea che l’enoturista ci venisse a trovare per assaggiare il nostro vino e dovesse essere, per forza, edotto su tecniche produttive, caratteristiche dei vitigni, buone pratiche agronomiche… ora, mi sa, questa chiave di lettura non apre più tutte le porte.

Se ci è chiaro che, ad oggi, per la maggior parte dei turisti che arrivano in cantina, la quintessenza di un wine tour non è più l’approcciare una passione nuova ed affascinante o l’approfondire una conoscenza già navigata, ma è il godere di una esperienza di entertainment tout court, possibilmente facendo sapere agli amici che la si è vissuta divertendosi, beh forse è arrivato il momento di capire come fronteggiare questa nuova tendenza. 

Svecchiare. Rinfrescare. Rinnovare!

Enoturimo, wine tourism

Ok, anche a me non gratifica – ad essere onesta – che lo scopo, il fine ultimo di molti tra quanti arrivano in cantina sia – oggigiorno – principalmente quello di uno spasso fine a sé stesso, postabile sui social. (Anche se questo però è utile per l’algoritmo!) D’altro canto è innegabile che parte del target di enoturisti sta andando in questa direzione…io ve la estremizzo un po’ volutamente: mi piace punzecchiare…

Si fa enoturismo perché è di moda. Perché fa figo. Per assecondare una bramosia esibizionista, quasi un voyeurismo al contrario, per cui ci si esalta nel farsi vedere immersi in set di tendenza…la cantina un po’ come fosse l’isola dei famosi dei comuni mortali…

Lo scatto non è più una foto ricordo, da incorniciare, custodire gelosamente perché magari ci ritrae mentre brindiamo col proprietario della cantina, toccando il calice migliore, non è più, la foto di cui andare orgogliosi, ma è un reel da postare sui media. 

Girato possibilmente tra botti scenografiche, in ambiente bucolico e agreste, meglio se in entourage vitivinicoli noti, riconoscibili a prima vista; si va in cantina agghindati e vestiti stravaganti…perché piace stupire, acquistare visibilità.

Anche un guru del settore, come Donatella Cinelli Colombini, ha recentemente sostenuto in una sua intervista che nell’enoturismo il target di visitatori sta cambiando fortemente e velocissimamente: oggi si cerca nelle aziende sempre più un intrattenimento, fine a sé stesso e frequentemente senza un grande interesse per il vino.

Il wine tour è diventato il must have di una vacanza o anche di un week end bello, talvolta vissuto solo come location trendy dove trovare intrattenimento, fare qualcosa di inusuale e divertente, e sempre più turisti vogliono sperimentare il fenomeno di costume.

enoturismo

Non nego che mi è capitato che, durante degustazioni di livello, con belle bottiglie d’annata, di quelle che dà gusto assaggiare ed è un privilegio poter stappare…che lipglossatissime enoturiste si siano allontanate dalla sala degustazione, disinteressate al vino ma affascinate dalla location vigna, per andare a girare tra filari, pampini e viticci, brevi video da postare su TikTok…

Mi è capitato anche di dover dare indicazioni stradali e reindirizzare altrove visitatori ignari del nome della cantina in cui avevano prenotato una esperienza. 

Arrivano al cancello, suonano. Eccitati e sicuri della loro prenotazione, convinti di aver prenotato in quell’lì e a quell’ora, parcheggiano all’ingresso, tra i vari cartelli con nome e logo della cantina stampigliati a lettere cubitali a dimensione gigantografie.

Io tremo…mi si ghiaccia il sangue: a me non risulta nessuna prenotazione per quell’ora e quel lì…

Respiro e faccio tornare la saliva in bocca, cerco, sorridendo, di sincerarmi, ancora un po’ titubante, a che prenotazione stiano facendo riferimento: perché non li stavo aspettando? Chiedo dettagli: con chi hanno preso l’appuntamento, quando, se hanno una conferma email o da portale prenotazione web?

Loro tentennano, non sanno il nome della persona con cui hanno preso accordi, non ricordano se hanno parlato con un uomo, una donna ….boh???…

A quel punto chiedo in che cantina hanno prenotato, in quale azienda vitivinicola: beh…la risposa (sconcertante) è stata “boh…abbiamo prenotato in UNA cantina…”.   

No Name… No Brand…

Una cantina vale l’altra, una, basta sia… Non si ricerca più un’etichetta specifica, un determinato produttore, non una denominazione d’origine identitaria, ciò che vale è il “topos” Winery, un non-luogo ideale in cui issare il vessillo del “ci sono stato”, io quell’avventura l’ho vissuta.

Allora dico: e se nell’enoturismo di oggi quello che importa non fosse più il vino? 

Ergo: se vogliamo stare al passo con il turista moderno, che è anche questo, il vino non deve essere più visto – da chi l’accoglienza in cantina la fa – come l’elemento cardine, il centro del bersaglio, il nucleo imprescindibile dell’offerta eno-turistica strutturata e attuale. 

Il centro di tutto è l’esperienza che intrattiene. L’essere in cantina. Il partecipare di un luogo. Il modo di fare accoglienza e storytelling va svecchiato, rinnovato, ammodernato.

La visita alla cantina – lo so suona ancora come una eresia passibile di scomunica! –  non necessariamente deve includere la degustazione (lo sapevate che tanti eno-visitatori sono astemi?) 

L’assaggio può essere fatto anche senza per forza visitare gli impianti produttivi. 

Si può offrire la sola degustazione, anche di un vino solo e non di tutta la gamma produttiva; creare un format d’assaggio assimilabile al rito dell’aperitivo fatto in enoteca, quindi organizzato in spazi dedicati ed allestiti per essere fruiti come se fossero un bar…magari all’aperto e con vista mozzafiato sui vigneti. 

Inventiva. Ci vuole inventiva per assecondare questi nuovi trend. Che comunque sono un flusso turistico. Anche il modo di comunicare quel vino, prodotto principe, che principe più non è, deve cambiare, deve essere aggiornato.

Non raccontare più il vino come tema centripeto ma fare storytelling in modo che il prodotto liquido sia subalterno al racconto, quanto più visivo possibile, del contesto in cui si concretizza. Del luogo. Dell’entertainment.